Mio figlio è apatico

Una mamma mi scrive: “Dottore, sono tre giorni che mio figlio è in completa apatia. Appena arriva a casa da scuola mangia velocemente, si mette in camera e dorme fino all’ora di cena. Ieri sera ho chiesto cosa c’era che non andava, se potevo aiutarlo in qualche modo, senza alzare la voce, con molta calma, e lui mi ha detto che non vuole più andare a scuola, che non ce la fa. Allora ho detto: Ma dai, vedrai che che questo tuo metterti in discussione ti aiuterà, che piano piano come sempre ce la farai. E lui mi ha risposto: ‘No, non capisci, io non voglio…’. Poi mi ha chiesto di uscire e non ha neanche cenato. Questa mattina, mi ha mandato un messaggio chiedendomi se poteva tornare a casa…. Io non so, mi sembra un disco che si ripete ogni anno, una fatica incredibile, sicuramente non riesco a comunicare con lui… Scusi lo sfogo, a presto, saluti”.

Dunque l’apatia… L’apatia è un un atteggiamento che ormai la maggior parte degli adolescenti ‘propone’ al mondo adulto. Rispetto a questo atteggiamento non è lei che fa qualcosa di particolarmente sbagliato e né, in effetti, nella risposta di suo figlio c’è qualcosa di straordinario. Con la sua apatia suo figlio sta comunicando qualcosa, un problema che non vuole o non può esprimere in un altro modo. Il fatto che l’apatia possa comunicare un possibile ‘disagio’ (una difficoltà o un bisogno), che si ripete da anni, non è di per sé un problema. Probabilmente il disagio non è mai stato affrontato e quindi è là, c’è. L’aspetto utile è che emerge, viene ‘comunicato’. Lei però oggi sa che atteggiamenti di questo genere sono comunicazioni di qualcos’altro e per ‘risolverli’ non possiamo essere sbrigativi: se provo una o due volte a capire il problema di mio figlio e dico ‘Eccomi, sono a tua disposizione, parliamo’, non si può pretendere che si metta in riga come niente fosse. Dall’altra parte, quella di suo figlio, c’è una sofferenza, ci sono domande sulla vita, interpretazioni, c’è un pensiero, c’è un cercare il proprio posto nel mondo. Naturalmente, rispetto all’educazione di un tempo, cinquant’anni fa, era sufficiente l’aurea del ruolo di genitore a indurre il figlio ad obbedire ad un ordine di comportarsi in un certo modo (‘fai come ti dico’), il quale per il 90% delle volte obbediva.

Oggi, i ragazzi interpretano, cercano significati, si fanno delle domande in un momento in cui dovrebbero essere solo studenti, almeno secondo le nostre idee (il che è un controsenso: studia, obbedisci, ma non pensare o, se pensi, pensa come ti dico io). Ma, che ci piaccia o no, lo stato delle cose è questo. La cultura sociale lo ha prodotto, cioè tutti noi, più o meno volontariamente. Insomma, la situazione oggi è questa: i ragazzi, gli adolescenti, non obbediscono, non seguono quello che noi adulti immaginiamo per loro (e questo non è affatto un problema che riguarda lo sviluppo). È necessario negoziare continuamente il senso della relazione, delle regole, degli affetti, adottando strategie comunicative più adatte a farsi intendere da loro. Un lavoro costante, impensabile nel rapporto educativo a senso unico di un tempo (Masoni, 2013, 2016, 2022). Solo comunicando un certo rispetto per le loro difficoltà, per i loro bisogni, otterremo quell’attenzione – il loro rispetto -, che porta i ragazzi a dire: ‘Ok,  se mi parli in questo modo, allora, ora ti ascolto’.

Aldo Strisciullo

No Comments