L’insufficienza delle storie

Più volte ho fatto riferimento alle narrazioni e ai racconti per spiegare come le persone costruiscono le loro identità. Le più moderne teorie psicologiche fanno riferimento alla storia e alla narrazione per spiegare il comportamento umano sociale. Le persone seguono un canovaccio, una storia generale che le rappresenti, che dia senso e significato a quello che fanno.

Il racconto di sé viene ‘imbastito’ negoziando con gli altri la possibilità stessa di quel racconto. Così, negli incontri sociali, a tutti i livelli, noi parliamo del mondo, delle cose, di obiettivi, di noi stessi e ciò che diciamo si configura come descrizione, come possibilità e come limite di ciò che siamo e possiamo fare. Due bambini che giocano e discutono le regole e le azioni del gioco raccontano del loro essere al mondo.

Le storie sono adatte a rappresentare chi pensiamo di essere poiché hanno proprietà generative. Ad esempio, parlando con un amico, posso rievocare il ricordo della mia infanzia in molti modi, con sfumature diverse, cercando di riportare la verosimiglianza dei fatti, esaltando alcuni particolari e qualche volta enfatizzandone altri. Insomma, quando parliamo raccontiamo e il narrare ci permette di dare significato a comportamenti e azioni, provare emozioni e desideri. Possiamo affermare che, per quel che riguarda la nostra esistenza, mentale e psicologica, noi dipendiamo dai nostri racconti. E quando le storie non funzionano o s’inceppano o diventano insopportabili possiamo rinarrarle.

La nostra storia personale non è compatta e lineare ma è attraversata da altre storie. La stessa storia principale è quella che, in un dato momento della nostra vita, ci rappresenta più delle altre. Ad ogni modo, la storia principale è il risultato di un insieme di altre narrazioni che si combinano e che ci danno infine l’idea di rappresentarci al meglio e un senso di unità interna ed esterna: sono ciò che penso di me, sono ciò che credo gli altri pensano di me. Questi due aspetti della storia possono non coincidere, possono spingerci a cercare di unificarli oppure possono scoraggiare i nostri tentativi, poiché abbandonare alcuni pezzi narrativi può essere doloroso o non conveniente.

Le storie quindi possono essere aperte o chiuse al cambiamento. Tuttavia, se le storie sono una buona metafora per descriverci e significare la nostra esistenza, esse hanno il limite delle storie. Le storie sono solo rappresentative, hanno delle incongruenze, non sono ciò che siamo realmente, ma ciò che raccontiamo di noi. Ma ciò che raccontiamo ci dà la sensazione di essere, di esistere, di appartenere, di sentirci reali. Le storie sono limitate da ciò che è narrabile, cioè possono descrivere il vero nella misura in cui questo è accettato da tutti e ogni gruppo sociale costruisce più o meno consapevolmente le possibilità e i limiti delle narrazioni possibili. Le storie di ciascuno di noi sono ancorate al ‘vero’ collettivo.

Dal mio punto di vista, la narrazione è, per il momento, lo strumento più pratico per comprendere l’atteggiamento umano, se teniamo presente che si tratta di un compromesso tra la cultura e l’essere. L’essere non lo conosciamo, la cultura è il frutto anomalo della nostra mancanza di conoscenza sull’essere. Pertanto, quando approcciamo la nostra storia o la storia di qualcun altro, in attesa di nuove conoscenze, è bene tener presente che le storie, sebbene ci rappresentino e ci consentano di abitare il mondo sociale, non sono sufficienti a colmare il senso pieno della nostra esistenza.

Tratto da, Aldo Strisciullo, E se i figli non van bene? Manuale per genitori provenienti dal pianeta Marte, Fabbrica dei Segni, 2021.

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